i farmaci per
la terapia del dolore

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Paracetamolo

E’ un analgesico molto diffuso e che può essere acquistato anche senza prescrizione medica. Oltre ad essere un efficace analgesico è anche un buon antipiretico, cioè riduce la febbre. Una delle caratteristiche farmacologiche che rendono diffuso il suo impiego è la scarsità degli effetti collaterali. Ciò lo fa preferire sia agli analgesici-anti infiammatori (FANS) che ai farmaci oppioidi. La dose da non superare, nell’adulto, è di 4 grammi al giorno, cioè mediamente 1 grammo ogni 6 ore. Il meccanismo d’azione del Paracetamolo è ancora parzialmente sconosciuto. Sappiamo però che un sovradosaggio può danneggiare il fegato. Il rischio di sovradosaggio è aumentato quando si assume il Paracetamolo insieme ad altri farmaci in concentrazioni predeterminate, per esempio insieme alla codeina (Co-efferalgan), al tramadolo (Patrol, Kolibrì) e all’ossicodone (Depalgos). Le formulazioni più facilmente reperibili in commercio di Paracetamolo da solo sono il Panadol, la Tachipirina e l’Efferalgan.

FANS

FANS è l’acronimo di Farmaci Anti infiammatori Non Steroidei, cioè che non appartengono alla famiglia degli steroidi (cortisonici). Sono farmaci analgesici molto efficaci in varie situazioni di dolore acuto e persistente. Il loro uso è estremamente diffuso e sono gli analgesici più usati e pubblicizzati. Ciò nonostante, i loro effetti collaterali e le potenziali complicanze sono gravi e numerose. Tra i principali effetti collaterali bisogna annoverare quelli a carico dell’apparato gastro intestinale (dispepsia, gastrite, ulcera, sanguinamento con erosioni della mucosa gastrica ), quelli a carico della funzione renale con scatenamento di insufficienza renale a volte anche grave, quelli a carico dell’apparato cardio circolatorio (edemi periferici, ipertensione) e quelli a carico dell’aggregabilita piatrinica con aumento della tendenza al sanguinamento. Queste potenziali e temibili complicanze aumentano percentualmente con il prolungamento del loro uso. Ecco perché è meglio che vengano adoperati o al bisogno o se devono essere adoperati in maniera continuativa, ogni giorno, è meglio che l’assunzione duri pochi giorni. In altre parole è sconsigliato il loro uso per lunghi periodi d tempo, per esempio superiori ai 15 giorni consecutivi. Tra i farmaci di questa categoria, alcuni hanno un potere analgesico particolarmente spiccato, come il Diclofenac (Voltaren), il Ketorolac (Toradol), la Nimesulide (Aulin), l’Ibuprofene (Brufen). Per ridurre gli effetti collaterali di questi farmaci, negli ultimi anni sono stati messi in commercio dei FANS con minori effetti collaterali, i cosiddetti inibitori selettivi delle Cox-2. Questi farmaci sono meno lesivi a livello renale e gastro intestinale ma sono sconsigliati nei pazienti che hanno avuto un precedente infarto cardiaco o ictus cerebrale ed in generale nei pazienti vasculopatici. Tra i più usati ci sono il Celecoxib (Celebrex), l’Etoricoxib (Arcoxia), il Parecoxib (Dynastat). Gli inibitori selettivi dei Cox-2 possono essere somministrati anche per periodi di tempo più lunghi rispetto ai FANS classici.

Oppioidi

Il farmaco più conosciuto e di riferimento tra gli oppioidi, è la morfina che si trova in commercio in varie formulazioni, compresse, sciroppo, gocce, supposte, fiale per uso sottocutaneo, intramuscolare, endovenoso ed intra rachideo. Insieme alla morfina sono in vendita nel nostro Paese dei farmaci con simile meccanismo d’azione ed effetti collaterali, come l’Ossicodone (Oxicontin, Targin, Depalgos), il Fentanile transdermico (Durogesic, Matrifen), l’Idromorfone (Jurnista), il Metadone, ecc. Tutti questi farmaci sono detti oppioidi forti, poiché non hanno un effetto tetto. Cioè non c’è un limite posologico alla loro somministrazione e la dose assunta può essere aumentata finché non si raggiunge l’analgesia desiderata o compaiono effetti collaterali insopportabili. Insieme agli oppioidi forti esistono i cosiddetti oppioidi deboli, come il Tramadolo (Contramal), la Codeína (in commercio in associazione con il Paracetamolo come Co-efferalgan), il Tapentadolo (Palexia), ecc. Questi ultimi si chiamano deboli poche hanno un effetto tetto, cioè non possono essere somministrati al di sopra di una certa dose oltre la quale non aumenta più il potere analgesico ma solo gli effetti collaterali. Comunque sia gli oppioidi forti che quelli deboli hanno un simile meccanismo d’azione ed effetti collaterali. Questi ultimi sono i più temuti e sono la causa principale di abbandono della terapia. Tra i più frequenti c’è la nausea ed il vomito, la sonnolenza, il disorientamento, l’astenia, la stitichezza, la difficoltà di concentrazione, ecc. Tutti quesi effetti collaterali di solito si riducono di intensità dopo alcuni giorni di assunzione, circa 7-10, tranne la stitichezza nei confronti della quale occorre prendere dei provvedimenti specifici come l’uso di lassativi, l’aumento dell’idratazione, l’aumento di frutta e verdura nell’alimentazione ed il movimento. Infine occorre sottolineare che, a differenza di quanto comunemente si pensa, gli oppioidi non sono i farmaci analgesici più efficaci in assoluto. Molti sono i dolori che non possono essere controllati dagli oppioidi in maniera soddisfacente come il dolore neuropatico (nevralgia trigeminale, nevralgia post erpetica, neuropatia diabetica, ecc.) e quello incidente. Il dolore incidente è, per esempio, quello che compare al movimento. Un tipico esempio è quello del dolore da artrosi dell’anca che è tollerabile quando si sta seduti o a letto ma può diventare fortissimo o intollerabile appena si cammina.

Cortisonici

Pur non essendo dei farmaci analgesici in senso stretto, sono spesso adoperati in associazione agli analgesici classici (Paracetamolo, FANS, Oppioidi) in determinate circostanze. Essendo dei potenti anti infiammatori ed anti edemigeni, sono associati agli analgesici ogni volta che il dolore è sicuramente provocato da una lesione infiammatoria importante, come alcune cervicobrachialgie o lombosciatalgie provocate da ernia discale. Inoltre, sempre per la loro capacita di ridurre gli edemi, sono utilizzati in tutte le situazioni in cui una lesione neoplastica comprime varie strutture corporee, per esempio nel caso in cui un tumore, o metastasi cerebrale comprime il cervello o dei linfonodi comprimono organi addominali. Purtroppo i loro effetti collaterali sono numerosi e frequenti, specie nell’uso prolungato, quindi devono essere usati giudiziosamente e per il minor tempo possibile. Tra gli effetti collaterali i più frequenti sono: aumento della glicemia, che può essere particolarmente grave nei pazienti con diabete scompensato, aumento della pressione arteriosa, osteoporosi, che può portare perfino a fratture ossee, ulcera gastrica e/o duodenale, predisposizione alle infezioni, aumento ponderale. Per tutti questi effetti collaterali esiste la possibilità di profilassi ma per altri (arrossamento del volto, strie cutanee, irsutismo e acne) non esiste alcuna possibilità di prevenzione o correzione. Inoltre se il loro uso supera le due/tre settimane consecutive, la sospensione deve essere graduale. Tra i cortisonici più usati in terapia del dolore ci sono quelli con potente azione anti infiammatoria e scarsa o nulla capacità sodio ritentiva. I più conosciuti sono il Desametasone (Decadron, Soldesam) ed il Betametasone (Bentelan).

Altri farmaci adoperati nel dolore neuropatico

Ci sono farmaci molto usati in terapia del dolore pur non essendo classificabili comunemente come analgesici. Vengono chiamati impropriamente “adiuvanti” ma in effetti sono farmaci di cui si sfrutta l’intrinseco meccanismo d’azione per controllare prevalentemente il dolore neuropatico. Un altra caratteristica di questi farmaci è quella di appartenere a categorie farmaceutiche ben diverse dagli analgesici classici. Fondamentalmente abbiamo due tipologie di farmaci, gli anti depressivi e gli anti epilettici.

Antidepressivi: nonostante il paziente con dolore cronico abbia spesso fenomeni ansiosi e depressivi di accompagnamento, questi farmaci sono usati non con la finalità di migliorare il tono dell’umore ma con quella di controllare il dolore. Tra i più antichi, ed efficaci, c’è l’Amitriptilina (Laroxyl) adoperata a fini analgesici con una posologia ben più bassa di quella usata con finalità anti depressiva. Altri farmaci di questa categoria, più moderni e con minori effetti collaterali, sono la Venlafaxina (Efexor ) e la Duloxetina (Cymbalta).

Antiepilettici: questi farmaci sono di uso anche più comune dei precedenti. Ne abbiamo due che sono particolarmente efficaci nel controllo del dolore della nevralgia trigeminale e sono la Carbamazepina (Tegretol) e la Oxcarbazepina (Tolep). Quest’ultimo è più moderno e più tollerabile. Altri diffusi antiepilettici come il Gabapentin (Neurontin) ed il Pregabalin (Lyrica) sono solitamente prescritti in numerosi dolori neuropatici come, per esempio, nella neuropatia diabetica, nella nevralgia post erpetica, nelle neuropatie post chirurgiche, nelle neuropatie da intrappolamento dei nervi, nelle radicolopatie cervicobrachiali e lombosacrali, ECC.

Sia gli antidepressivi che gli antiepilettici hanno effetti collaterali, in misura più o meno significativa, a carico del sistema nervoso, come confusione mentale, sonnolenza, disorientamento, riduzione della capacità di concentrazione, ECC. Tali effetti collaterali negli anziani possono essere particolarmente gravi e costringerli ad abbandonare la terapia.

Cannabis

Si sa ancora poco sull’efficacia dei derivati della Cannabis nel dolore e sul loro meccanismo d’azione. Esistono in commercio sia farmaci contenenti il principio attivo della Cannabis, il THC (tetraidrocannabinolo) che derivati cannabici sintetici. Comunque questi farmaci agiscono in maniera differente sia dagli oppioidi che dai FANS, e quindi non hanno i loro effetti collaterali. Però la presenza di recettori per la cannabis in alcune aree cerebrali (nucleo accumbens) spiega la capacità che hanno di provocare dipendenza, come gli oppioidi ed altre droghe. L’efficacia analgesica nell’uomo del fumo di Cannabis o della somministrazione orale di THC è attualmente molto controversa ed accanto a studi scientifici che ne caldeggiano l’uso sia per il dolore, da cancro e non, che per altri sintomi, ve ne sono altri che ritengono il suo effetto analgesico non superiore a quello della codeina, (oppioide cosiddetto debole).

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Infiltrazione dei punti trigger (PT)

I PT sono delle zone dolenti alla palpazione cutanea che corrispondono a muscoli, anzi a parti di muscoli, che per vari motivi si trovano in una situazione di anomala ed eccessiva contrattura muscolare. La parola trigger in inglese vuol dire grilletto e questi punti sono così chiamati poiché la loro compressione provoca oltre a dolore locale anche dolore riferito in una sede più distante che viene chiamata area target, cioè area bersaglio. In altre parole, quando comprimiamo un punto trigger è come se premessimo un grilletto di una pistola ed il proiettile raggiungesse un vicino bersaglio. Il motivo per il quale i muscoli sviluppano al loro interno i TP è il lavoro eccessivo e anomalo al quale sono sottoposti alcuni muscoli. Questo accade per esempio in situazioni di stress psico emotivo con contrazione duratura dei muscoli del collo, o in alcuni lavori come l’orologiaio o in generale in quelli dove è prevista una posizione forzata di alcune parti del corpo per molto tempo ( avori prolungati davanti al computer, sarti, persone che tengono a lungo la cornetta del telefono o il cellulare poggiato sulla spalla e devono inclinare forzatamente il capo per poter parlare avendo le mani impegnate, e così via). Ma i TP si possono anche sviluppare a seguito di posture anomale della colonna vertebrale come esito di gravi scoliosi, o paralisi muscolari. Infine ci sono delle malattie sistemiche, come la fibromialgia, che sono caratterizzate dalla presenza di numerosi PT diffusi in ampie zone corporee. A volte la presenza di PT simula malattie dolorose diffuse, con per esempio lombosciatalgie, o nevralgie o dolori viscerali, che se non riconosciute portano a diagnosi scorrette ed a volte anche al ricorso a terapie farmacologiche, quando non chirurgiche, pesanti e rischiose.
Invece, se ben riconosciuti i PT sono trattabili facilmente. Si possono massaggiare i muscoli che li contengono al loro interno o trattare con una tecnica che si chiama “spray e stretching ” o infiltrare con un normale ago da siringa iniettando una piccola quantità di anestetico locale. In quest’ultimo caso le infiltrazioni vanno ripetute più volte in base al miglioramento della sintomatologia. Spesso i TP si riformano se i muscoli del paziente sono sottoposti agli stessi stress e quindi vanno ripetute le infiltrazioni che sono, comunque, innocue e indolori oltre che molto efficaci nel risolvere in fretta e completamente i dolori. Nei casi di dolori sostenuti dalla presenza di TP le terapie topiche sono da preferire a quelle farmacologiche che sono notoriamente scarsamente efficaci oltre che con non pochi effetti collaterali.

Infiltrazioni intra articolari e peri articolari

Le infiltrazioni eseguite direttamente dentro le articolazioni o in alcuni casi nelle loro strette vicinanze sono eseguite solitamente per iniettare cortisone, o acido Ialuronico o centrifugati di piastrine prelevate allo stesso paziente. Tutte queste sostanze hanno una finalità analgesica anche se nessuna di esse è un analgesico in senso stretto. In altre parole l’analgesia viene ottenuta riducendo l’infiammazione o i prodotti che innescano il dolore o aumentando la viscosità intra articolare o migliorando, aumentandola, la produzione di cartilagine. Le principali indicazioni sono le malattie infiammatorie delle articolazioni, come l’artrite reumatoide o degenerative come l’artrosi. Spesso anche situazioni localizzate come le tendiniti (gomito del tennista, periartriti scapolo omerali) sono una buona indicazione per questo tipo di infiltrazioni. Nella caso dell’infiltrazione con cortisone bisogna però evitare le somministrazioni frequenti, specialmente se c’è la possibilità che in un tempo più o meno breve il paziente debba essere sottoposto a protesi dell’articolazione dolente. In quest’ultimo caso è bene non superare le due, massimo tre infiltrazioni annuali. Infine non bisogna dimenticare che il cortisone, anche se iniettato topicamente, può essere responsabile dei suoi tipici effetti collaterali (aumento della glicemia, della pressione arteriosa, dell’osteoporosi, ecc.). Comunque se usate con giudizio, queste infiltrazioni riducono presto e bene il dolore e l’infiammazione.

Infiltrazioni epidurali

Questa tipologia di infiltrazioni è solitamente eseguita da Anestesisti/Terapisti del dolore che sono abituati nella loro pratica quotidiana ad eseguirle anche con finalità anestesiologiche. Per aumentare la loro efficacia e ridurne il numero, è preferibile che vengano eseguite sotto il controllo radiologico (radiologia tradizionale, ecografia, TAC). Queste infiltrazioni vanno precedute da un’accurata visita affinché si possa diagnosticare una patologia dolorosa suscettibile di miglioramento in seguito all’infiltrazione. Tra queste patologie le più frequenti sono i dolori agli arti superiori (cervicobrachialgie) o inferiori (lombosciatalgie) di solito provocati da ernie discali a carico del rachide cervicale o lombare. Anche i dolori da stenosi del canale, cervicale o lombare, sono una buona indicazione. Tecnicamente il cortisone, che è il farmaco che viene impiegato nella maggioranza dei casi, viene iniettato nello spazio epidurale vicino alla radice nervosa irritata o compressa. Lo spazio epidurale si trova posteriormente al midollo spinale dal quale è separato da altre due meningi, l’aracnoide e la pia madre. Anche in questo caso occorre che la dose di cortisone non sia eccessiva sia nella singola infiltrazione che nel complesso. In altre parole è bene che le infiltrazioni non superino le tre infiltrazioni distanziate di 15 giorni l’una dall’altra. Questi cicli di 3 infiltrazioni non dovrebbero essere eseguite più di 3 volte l’anno, cioè un ciclo da 3 ogni 4 mesi. Se in seguito alle infiltrazioni il paziente ricava un beneficio più breve (alcune settimane), invece di continuare con un altro ciclo dopo almeno 4 mesi, è meglio passare ad un’altra tecnica, come per esempio la neuromodulazione con radiofrequenza pulsata.

Neuromodulazione con radiofrequenza pulsata

E’ una tecnica antalgica mini invasiva che si esegue tramite dei sottili aghi o, più raramente, dei cateteri elettrici. Questi aghi sono connessi ad un apparecchio generatore di corrente a radiofrequenza pulsata. Quando l’ago è introdotto attraverso la cute, si cerca il contatto, o la stretta vicinanza, con strutture anatomiche nervose. Questa ricerca viene eseguita con l’aiuto dell’apparecchio radiologico o dell’ecografo o della TAC. Una volta che l’ago ha raggiunto il suo bersaglio nervoso, attraverso di esso si inviano degli stimoli elettrici che trasmessi al nervo vicino evocano delle sensazioni particolari (formicolio, sensazione di scossa elettrica, senso di peso, ecc.) che aiutano a capire quanto l’ago è vicino al nervo. Se la distanza è quella ottimale, si eroga la corrente a radiofrequenza pulsata che riduce la sensazione di dolore trasmessa dal nervo verso il cervello, dove il dolore diventa cosciente. Questa riduzione della capacità di trasmettere il segnale doloroso non si accompagna a nessun altro deficit neurologico, cioè il paziente non avrà né riduzione della sensibilità né della motilità. Questa analgesia che potrà essere completa, ma più spesso parziale, di circa il 50%, ha una durata media di 6-8 mesi. Quando il dolore dovesse ritornare la procedura potrebbe essere ripetuta. Questa tecnica antalgica negli ultimi anni ha guadagnato popolarità grazie alla capacità di alleviare il dolore con pochissimi effetti collaterali. Inoltre non è rischiosa, a parte delle tecniche in determinate regioni corporee, e neanche dolorosa. Il modesto fastidio che si accompagna alla sua esecuzione è ben controllato da una modesta sedazione farmacologica.

Neurolesione con radiofrequenza continua

E’ una tecnica antalgica mini invasiva che si esegue tramite dei sottili aghi introdotti percutaneamente alla ricerca del bersaglio, spesso, nervoso. Questi aghi sono connessi ad un apparecchio generatore di corrente a radiofrequenza continua. Quando l’ago è introdotto attraverso la cute, si cerca il contatto, o la stretta vicinanza, con strutture anatomiche nervose. Questa ricerca viene eseguita con l’aiuto dell’apparecchio radiologico o dell’ecografo o della TAC. Una volta che l’ago ha raggiunto il suo bersaglio nervoso, attraverso di esso si inviano degli stimoli elettrici che trasmessi al nervo vicino evocano delle sensazioni particolari (formicolio, sensazione di scossa elettrica, senso di peso, ecc.) che aiutano a capire quanto l’ago è vicino al nervo. Se la distanza è quella ottimale, si eroga la corrente continua che sviluppando calore provoca una lesione nervosa che impedisce il passaggio dello stimolo doloroso. Insieme all’effetto antalgico solitamente si ha anche una riduzione della sensibilità nel territorio cutaneo innervato dal nervo trattato. Se questo nervo oltre ad essere sensitivo, è anche motorio (nervo misto) si assisterà anche alla riduzione della forza muscolare nel territorio cutaneo innervato nel nervo trattato. L’analgesia così ottenuta dura per diversi anni e quando il dolore dovesse ritornare, poiché il nervo ha sempre tendenza a rigenerare, la metodica può essere ripetuta. A causa delle complicanze alle quali si è accennato (riduzione della sensibilità e della forza muscolare) la metodica di lesione nervosa con la radiofrequenza continua è stata in gran parte sostituita dalla neuromodulazione con radiofrequenza pulsata che anche se dà una minore analgesia e per un tempo inferiore, non ha gli stessi effetti collaterali della lesione nervosa. Tra le poche indicazioni per le quali ancora si adopera la lesione nervosa con radiofrequenza continua, si devono annoverare la termorizotomia trigeminale, (tecnica eccellente per il controllo del temibile dolore da nevralgia trigeminale), la cordotomia cervicale percutanea (tecnica per il controllo del dolore oncologico resistente al trattamento con oppioidi) e la denervazione delle faccette articolari, cervicali, toraciche e lombari, nella quale la lesione di piccolissime terminazioni nervose che innervano le faccette articolari è senza conseguenze neurologiche.

Lisi delle aderenze meningee

Questa tecnica è destinata ai pazienti che essendo stati già operati alla colonna vertebrale, solitamente per ernia del disco o stenosi del canale lombare o stabilizzazione o altre cause più rare, invece di averne un beneficio duraturo hanno delle precoci recidive di dolore o, addirittura, non hanno alcun beneficio e i loro sintomi anziché migliorare peggiorano. Quando ciò si verifica, solitamente dopo alcuni mesi dall’intervento chirurgico sulla colonna non ben riuscito, si esegue una risonanza magnetica di controllo che, a volte, può mostrare la presenza di cicatrici e aderenze nello spazio epidurale che potrebbero rappresentare la causa del dolore. Se la terapia farmacologica non riesce a controllare il dolore provocato da queste aderenze (dolore o bruciore agli arti inferiori con riduzione della sensibilità tattile, formicolio, sensazione di scossa elettrica, riduzione della forza muscolare, ecc.,) si può provare a rimuoverle con una tecnica mini invasiva che consiste nell’introdurre un cateterino nello spazio epidurale, attraverso una puntura tra l’osso sacro ed il coccige. Il piccolo catetere, una volta introdotto, viene diretto sotto controllo radiologico verso la zona della colonna vertebrale dove si sono formate le aderenze. A questo punto si introduce una guida ottica dentro il catetere, come quelle in uso per eseguire le artroscopie di ginocchio o le endoscopie in generale, e si osservano le cicatrici aderenziali che poste intorno alle radici nervose, le comprimono provocando dolore. Quindi, sempre attraverso il catetere si introduce un sistema che collegato ad un apparecchio di radiofrequenza brucia le aderenze liberando i nervi. Inoltre sempre attraverso il catetere si possono iniettare sostanze, cortisone, ialuronidasi e soluzione ipertonica, che riducono l’infiammazione e la compressione sui nervi. Il risultato sul dolore è molto buono anche se, purtroppo, dopo un periodo di 6-8 mesi circa i disturbi possono ripresentarsi in seguito alla formazione di nuove aderenze. In questo caso, il passo successivo può essere quello di ricorrere al posizionamento di uno stimolatore midollare o di una pompa totalmente impiantata per l’infusione di analgesici nel canale midollare.

Elettro neuro stimolazione del midollo spinale

E’ una tecnica antalgica mini invasiva dedicata ai pazienti con patologie dolorose complesse non rispondenti, o rispondenti in maniera insoddisfacente, alla terapia farmacologica. Tali patologie sono la cosiddetta sindrome post laminectomia (dolore alla colonna lombare ed agli arti inferiori che rimane o peggiora dopo uno o più interventi chirurgici sulla colonna lombare per ernia del disco, stenosi del canale, stabilizzazione vertebrale, ecc.), le arteriopatie ischemiche non correggibili chirurgicamente con gli interventi di rivascolarizzazione, le lombalgie senza cause evidenziabili o che comunque non rispondono alla terapia farmacologica e riabilitativa e per le quali non ci sia un’indicazione ad un intervento chirurgico risolutore. Ancora la stimolazione midollare può essere adoperata per il controllo di alcuni dolori neuropatici come la neuropatia diabetica o alcuni casi di nevralgia post erpetica. Qualunque sia l’indicazione, l’intervento chirurgico per il posizionamento di stimolatore midollare si svolge in due tempi con due ricoveri separati. Durante il primo ricovero, in sala operatoria, si posiziona attraverso una puntura dello spazio epidurale un elettro catetere che si fa risalire con l’aiuto della guida radiologica fino al livello midollare voluto. Il paziente di solito avvertirà un formicolio, provocato dall’elettro catetere, nella zona corporea interessata dal dolore. Si fissa l’elettro catetere e lo si collega ad un piccolo stimolatore esterno che il paziente dovrà portare con sé per alcune settimane, di solito da 2 a 4, durante le quali dovrà valutare se il formicolio provocato dallo stimolatore è in grado di nascondere il suo dolore. Se ciò si verifica, il paziente si ricovera per la seconda volta e l’elettro catetere che era già stato posizionato si collega con un apposito cavo e lo si connette ad un generatore interno, una sorta di pace maker posto vicino all’ombelico nel sottocute. Questa batteria dura circa 5 anni e quando si scarica va sostituita. Quello appena descritto è il classico stimolatore midollare. Negli ultimi anni ne sono stati messi in commercio nuovi modelli (con batteria ricaricabile, che non provocano formicolio, che stimolano la parte affettiva talamica aumentando la tollerabilità al dolore). A causa dell’elevato costo dello strumento e del fatto che bisogna portarlo sempre addosso, questa tecnica è riservata ad una tipologia di pazienti non altrimenti trattabile.

Posizionamento di un catetere nel canale midollare connesso a pompa

Nei casi in cui la causa che provoca dolore cronico non sia eliminabile o, addirittura, neanche riconoscibile, si tenta di controllarlo con il ricorso alla somministrazione di farmaci analgesici assunti per via orale o transdermica (cerotti). Questi farmaci solitamente sono oppioidi, visto che gli anti infiammatori non possono essere somministrati per un lungo periodo di tempo a causa dei gravi effetti collaterali legati alla loro somministrazione cronica. Purtroppo, quando somministrati per lungo tempo anche gli oppioidi si accompagnano ad effetti collaterali gravi. Recentemente giungono notizie sconfortanti dagli Stati Uniti e da paesi del nord Europa sull’escalation di morti dovuti all’uso continuato, e all’inevitabile abuso, di farmaci oppioidi. Questo si verifica per il dolore cronico legato soprattutto a cause non oncologiche visto che, purtroppo, le persone con grave dolore causato da un tumore hanno una limitata aspettativa di vita. Comunque, sia nel caso di dolore da cancro che da cause non oncologiche, nei casi in cui il ricorso alla terapia cronica con oppioidi a dosi elevate non abbia alternative, si può ricorrere con maggiore soddisfazione alla somministrazione degli stessi oppioidi, da soli o insieme ad analgesici che non possono essere assunti per via orale, attraverso un’altra via di somministrazione, quella midollare. Inoltre, non bisogna dimenticare che gli oppioidi non controllano tutti i dolori efficacemente e che alcuni di essi, come il dolore neuropatico o il dolore incident (dolore al movimento), sono scarsamente o per nulla controllati anche da dosi generose di farmaci oppioidi. Alla luce di queste considerazioni ed anche tenendo presente che un farmaco oppioide può essere somministrato con eguale, o maggiore, efficacia per via midollare ad un dosaggio di almeno 100 volte inferiore a quello usato per via orale, si comprende perché il ricorso a questa tecnica ottiene la preferenza. Infatti poter somministrare un oppioide ad un dosaggio così basso e ottenendo maggiore efficacia migliora senz’altro la qualità di vita del paziente permettendogli di tollerare meglio gli eventuali effetti collaterali. La técnica consiste nel posizionare un cateterino nello spazio midollare attraverso una puntura dello spazio subaracnoideo. Il catetere si posiziona posteriormente al midollo nella sede che corrisponde al dolore del paziente e si collega ad una pompa (che è un contenitore metallico di farmaco relativamente di piccole dimensioni) che viene posizionata nel sottocute in una zona a fianco all’ombelico. Alla fine dell’intervento tutto il sistema, catetere e pompa, sono completamente sotto la pelle e quindi non visibili e soprattutto non interferiscono con le quotidiane attività del paziente. La pompa oltre ad avere un serbatoio che contiene il farmaco, è anche provvista di un motore che lo spinge attraverso il catetere fino al midollo dove agirà. Quando il farmaco si esaurisce la pompa verrà ricaricata con nuovo farmaco pungendo la cute sopra la pompa per accedere al serbatoio. Inoltre attraverso un programmatore esterno si può modificare la velocità di somministrazione del farmaco in base alle esigenze del paziente.

Vertebroplastica e Cifoplastica

E’ una tecnica antalgica mini invasiva riservata a pazienti con crollo vertebrale dovuto o ad osteoporosi o ad un tumore primitivo o, più frequentemente metastatico, che interessa una o più vertebre. Prima dell’avvento di questa metodica, i pazienti con crollo, cioè frattura, vertebrale erano costretti all’immobilità forzata a letto per non meno di 40 giorni. Ciò provocava, specie nei pazienti anziani, una notevole perdita della massa muscolare con difficile recupero di una normale deambulazione oltre ad una inevitabile depressione dell’umore ed in generale ad un decadimento della qualità di vita. Inoltre il dolore al movimento è nei casi di frattura vertebrale estremamente violento ed anche potenti farmaci analgesici riescono solo in parte ad alleviarlo. Con la possibilità, invece, di ricorrere alla vertebroplastica, questo problema non esiste più ed il paziente recupera una normale funzione ed una scomparsa del dolore già dalle prime ore dalla fine dell’intervento. Tecnicamente questa procedura va eseguita in sala operatoria, in anestesia locale, con l’aiuto della radiologia tradizionale o della TAC. Un ago di calibro adeguato viene introdotto dentro il corpo vertebrale e quando ha raggiunto la posizione ottimale, attraverso di esso viene iniettata una piccola quantità di cemento biologico, di solito non più di 4-5 cc. Se oltre a ridurre il dolore occorre anche risollevare i piatti vertebrali acquattati dopo la frattura, si usa la cifoplastica. La metodica è identica alla vertebroplastica, ma prima di iniettare il cemento di introduce nel corpo vertebrale un palloncino che gonfiandosi solleva i piatti della vertebra. Successivamente dentro la cavità creata dal palloncino si inietta il cemento. Sia la vertebro che la cifoplastica sono metodiche con pochi effetti collaterali a patto di rispettare le opportune precauzioni e di essere esperti con questa procedura. Vi sono dei limiti alla sua applicabilità e sono quelli dovuti ad un interessamento di molte vertebre contemporaneamente ed al danneggiamento, dovuto all’osteoporosi o al tumore, della parte posteriore del corpo vertebrale, che segna il confine tra la vertebra ed il midollo spinale.

Interventi percutanei per l'ernia del disco

L’ernia del disco è la causa più frequente di lombosciatalgia nelle persone al di sotto dei 50 anni. Questo dato dà ragione dell’alta frequenza di questa patologia che, comunque, nel 70% dei casi guarisce spontaneamente in 3 mesi circa. Nonostante questo dato sia molto incoraggiante, la lombosciatalgia da ernia del disco recidiva con molta frequenza. Per i motivi suesposti le procedure chirurgiche per la rimozione dell’ernia del disco sono molto numerose ma non sempre coronate da successo, sia per la ricomparsa del dolore anche dopo breve tempo dall’intervento chirurgico che per il peggioramento dei sintomi che precedevano l’intervento. Questo ha portato ad una riduzione di questi interventi ma non, ovviamente, delle lombosciatalgie da ernia discale. Per risolvere i problemi del dolore nei pazienti che non guariscono spontaneamente e non rispondono al trattamento farmacologico e riabilitativo e non sono suscettibili di un intervento chirurgico tradizionale, sono nate e si sono sviluppate le tecniche per la rimozione dell’ernia discale attraverso un ago introdotto percutaneamente, in anestesia locale, dentro il disco intervertebrale. L’introduzione dell’ago è comune a molte tecniche mini invasive che si differenziano tra di loro solo per quello che avviene successivamente all’introduzione dell’ago dentro il disco. La maggior parte di queste sfruttano il calore che serve per ridurre il volume del disco erniato in modo da ridurre la compressione sulla radice nervosa, ledere i recettori del dolore che sono posti nella parte periferica del disco e, per alcune tecniche, ricostituire la struttura tridimensionale del tessuto che costituisce il disco.